Al Jazz Festival, televisione e giornalismo nell’incontro con Carmelo Abbate

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Carmelo Abbate, giornalista di Panorama e opinionista in diversi programmi del gruppo Mediaset, è un giovanotto longilineo, un professionista preparato che ha ormai “bucato” lo schermo in quella tv che è la sua seconda casa. La prima, quella d’origine, è la Castelbuono di piazza Margherita. «Ritorno nella piazza dove ho servito a quei tavoli da giovane» ricorda Abbate indicando il pubblico seduto. E non solo.


È la piazzetta dei Fiasconaro, i pasticceri che hanno portato il panettone al Nord. «Con don Mario riempivo i dolci di panna». Spezza la tensione ritornando nel suo paese natale dal quale è andato via decenni fa. È emozionato e non lo nasconde. Dalla carta stampata allo schermo, dai talk fin dentro alle radici, in quella piazza che, insieme al Castello, è cartuccia nella cintura di simboli da cui un castelbuonese – antropologia a parte – non riuscirà mai a staccarsi.

Il giornalismo Abbate lo vive, anche in maniera sanguigna. Grida tanto in tv: «Nel mio caso cerco sempre di essere corretto. Spesso vorrei alzarmi, è vero; non mi sono mai prestato a giochi e allora urlo». E ci scherza su anche padre Lorenzo Marzullo, seduto più avanti, davanti alla “sua” chiesetta: «Devo dirglielo prima o poi di gridare meno».

L’accento, nella chiacchierata con Mario Macaluso, direttore di cefalunews, va sulla spettacolarizzazione del dolore. «È vero e credo ci sia anche nella trasmissione dove sono io» riferendosi a “Quarto Grado”, il programma di Rete 4 condotto dal collega Gianluigi Nuzzi. «Non mi piace e però sto lì: è vero. Può sembrare contraddittorio, ma non posso determinare una trasmissione non mia. Cosa che feci con il mio programma, “Il Labirinto”». Abbate sottolinea la possibile sua contraddizione e quella dei tanti spettatori che pur indignandosi davanti alla tv e ai suoi programmi, continuano a rimanervi attaccati. Al centro di tutto ci stanno la singola persona, la sua dignità, i suoi diritti, al di là della definizione processuale. «Mostrare una persona tratta in arresto a favore di flash e telecamere con le manette, non lo reggo. Odio la gogna in tutte le sue forme». Abbate è diretto e ha paura del potente mezzo televisivo in mano a “mascalzoni”: la deontologia rimane, allora come ora, il vero faro per ciascun operatore dell’informazione.
Il leitmotiv “l’ha detto la televisione” è quasi sempre stato un marchio di garanzia. «Ma oggi – aggiunge Abbate – non c’è più “la” verità, ma “una” verità». E ogni mezzo di informazione finisce quasi coll’averne una, la sua…
Giù tutto tranne una, che è poi la regola aurea della tv: l’audience, lo share, le percentuali di ascolto che s’alzano. «Sono soldi, una volta tradotte. E a decidere indirettamente con il telecomando è proprio il pubblico». Una sorta di indice puntato su se stessi: origine e fine di quella spettacolarizzazione che crea indignazione. I processi mediatici diventano tritacarne per i protagonisti e per le persone che ruotano attorno a loro e il loro rapporto con la verità giudiziaria rischia di generare un insano cortocircuito. Occorre ridimensionare e ridimensionarsi.

Ecco la stoccata sulla figura del giornalista oggi, che va ripensata. In tempi di citizen jourmalism, di bufale e di occhi social puntati sulla realtà che si svolge in contemporanea, difficilmente un giornalista riesce ad arrivare prima degli altri. «Mentre prima il giornalista più bravo – precisa Abbate – era colui che dava la notizia per primo con il suo scoop, oggi, anche se ciò dovesse accadere, quella notizia verrà fagocitata dalla rete mezz’ora dopo, non sapendo quasi più nulla della sua paternità». Il giornalista non più avamposto, ma retroguardia, sulle retrovie, per analizzare, fermare o filtrare quel flusso lì. «Non dimenticando – continua Abbate – che si sarà bravi se si sarà semplici: semplici, chiari e concisi per farsi capire da tutti».
E tutti, ormai, impattano con il fenomeno migratorio. È d’attualità e ha segnato il percorso di Abbate, che si è attirato diverse critiche per le sue rivolte alle ong. «Ultimamente sono stato etichettato come una sorta di razzista nemico degli immigrati… Penso che gli immigrati li devi andare a prendere con le tue navi e non lasciarli morire e penso pure che l’arricchimento di pochi sulle spalle dei poveri migranti – aggiunge Abbate – sia uno sporco affare, tanto più se poi i costi sociali ricadono sulle classi sociali medio-basse». E rincara: «Ho criticato le ong e le attività che facevano in mare: quando tu dici qualcosa contro la gestione dei flussi migratori, spengono ogni voce di dissenso etichettando come “fascista”. Questo è il pensiero unico…». Lo pensa Abbate e lo pensano in tanti: il fenomeno migratorio va controllato, evitando di far saltare tutto. «L’immigrazione deve diventare una risorsa e non subirla. Diversamente hai voglia a dire che Salvini e Meloni aizzano la gente!»
Abbate parla delle tantissime lettere ricevute, anche dal carcere, anche da Veronica Panarello. E parla del terremoto di Ischia: «Mi lascio travolgere da quelle immagini». Una sorta di spegnimento cosciente e consapevole del cervello, aggiunge, perché a razionalizzare un po’ salterebbe fuori l’ovvio: l’abusivismo non è piovuto dall’alto… «Determiniamo noi il nostro destino» aggiunge Abbate.

A settembre andrà in libreria con il suo ultimo lavoro “Armatevi e morite”, sulla legittima difesa. Lo ha scritto a quattro mani con Pietrangelo Buttafuoco: «Al telefono non riusciamo a parlare in italiano: passiamo al dialetto alla seconda battuta». Per gli autori, «uno Stato che arma i suoi cittadini è uno Stato che si lava le mani». E aggiunge: «E critichiamo aspramente la destra». Lui che non è mai stato un sostenitore di Berlusconi pur avendo avuto la “marchiatura” sul groppone. Ha mosso i suoi passi in Mondadori, a Mediaset, a Panorama «eppure – in barba alla marchiatura di asservimento – nessuno mi ha mai chiesto di fare qualcosa che io non volessi fare. E non ho mai votato Berlusconi… La libertà editoriale – aggiunge – che ogni singolo giornalista ha goduto in queste realtà è stata ampia. Lì, in fondo, ho pubblicato le copertine di “Sex and the Vatican” sui preti gay».

Abbate ringrazia, ricorda che i fatti vanno separati dalle opinioni e ringrazia. In quella piazza Margherita da dove tutto è partito.