Referendum: Trabia il comune più antirenziano, Geraci Siculo il più filogovernativo

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Mesi interminabili quelli vissuti dal Paese, immerso in una logorante – e pur necessaria – campagna elettorale sulla riforma costituzionale, giunta al capolinea il 4 dicembre scorso, quando le urne hanno emesso il responso definitivo. Che ha determinato, con la netta vittoria del “no”, il tracollo di Matteo Renzi e del suo governo.
Si è aperta una usuale crisi “al buio” e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è ritornato a dare le carte. Adesso seguiranno le consultazioni con i diversi partiti e alla fine si dovrà decidere quale strada imboccare: nuovo esecutivo o elezioni anticipate (sebbene appaia poco plausibile), sciogliendo le Camere e rimettendo la scelta nelle mani dei cittadini.

A spingere per quest’ultima opzione, tuttavia, sono diverse forze politiche, come Lega e M5S, mentre in casa Pd e nell’area centrista non è unanime la linea da seguire: di certo, lì si annidano i principali sostenitori di un governo di responsabilità o di emergenza nazionale che guidi l’Italia fino alla scadenza naturale della legislatura, nel 2018, o rimanga in carica almeno fino all’approvazione di una nuova legge elettorale che tenga anche conto della decisione della Consulta sull’Italicum per poi votare in primavera. A guidarlo, i nomi più gettonati delle ultime ore sono quelli di Pietro Grasso, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan. Ma c’è chi spinge, tra i falchi della Leopolda, per un Renzi-bis. Nel primo caso si riuscirebbe a tirare dentro Forza Italia e forse anche Fratelli d’Italia, oltre l’area centrista; nel secondo, le cose si complicherebbero non poco.

A votare, in Italia e nella circoscrizione “Estero”, sono stati in totale il 65,47% degli elettori (33.244.258), con la differenza che in patria ha prevalso il “no”, mentre all’estero il “sì”. Analizzando il voto interno, si sono registrate punte di affluenza in Veneto con il 76,66%, mentre dopo la Calabria (54,43%), la Sicilia è stata la regione dove in misura più ridotta gli elettori si sono recati a votare (56,65%); proprio al Sud e nelle isole si è annidata la più alta percentuale di “No” (Sardegna, 72,22%; Sicilia, 71,58%). Le uniche 3 regioni a optare per il “sì” sono state il Trentino-Alto Adige (53,87%), la Toscana (52,51%) e l’Emilia-Romagna (50,39%).

Nel comprensorio Termini-Cefalù-Madonie, il trend ha rispecchiato quello isolano e, più in generale, quello nazionale. In tutti e 34 i comuni dell’area considerata, il “no” ha surclassato il “sì”, spesso quasi raddoppiando la distanza. Ebbene, in relazione al numero degli elettori e delle sezioni scrutinate, il comune dove ha prevalso il “no” con una percentuale più alta rispetto alla stessa scelta nei restanti del comprensorio, è stato Trabia, con il 78,93% di voti contrari al quesito referendario. È, in sostanza, il comune più antirenziano di questa fetta di Sicilia (a seguire, Altavilla Milicia con il 77,59% e Caccamo con il 76,79%), pur non registrando la più alta percentuale di affluenza alle urne. Primato questo assegnato a Pollina con il suo 67,57% di votanti (a seguire, Petralia Soprana con il 61,40% e Cefalù con il 61,31%). Proprio a Pollina, il feudo della deputata Magda Culotta, il “no” si è attestato al 61,20%, mentre il “sì” si è fermato appena al 38,80%. Similmente a Cefalù, la cui giunta è a guida dem, lo scarto tra i “no” (66,48%) e i “sì” (33,52%) è stato anch’esso elevato. Stessa sorte, ad esempio, per Caltavuturo (“sì”, 32,41%; “no”, 67,59%), Campofelice di Roccella (“sì”, 32,14%; “no”, 67,86%), Gratteri (“sì”, 42,42%; “no”, 57,58%), Petralia Soprana (“sì”, 35,53%; “no”, 64,47%), Petralia Sottana (“sì”, 34,15%; “no”, 65,85%), Sciara (“sì”, 35,02%; “no”, 64,98%), Valledolmo (“sì”, 28,16%; “no”, 71,84%).

All’opposto, la fascia di comune più filogovernativo spetta a Geraci Siculo dove i “sì”, in termini relativi, hanno ottenuto il maggior numero di voti con il 48,07% (a seguire Isnello con il 45,49% e Castelbuono con il 44,10%. In entrambi i comuni, i sindaci avevano manifestato l’intenzione di appoggiare le ragioni del “sì” pur non appartenendo al Pd). È pur vero, tuttavia, che lo scarto (il minore in assoluto tra tutti i comuni considerati) tra i “sì” e i “no”, qui, è stato davvero irrisorio: appena 33 voti.

A Termini Imerese, il comune del comprensorio con il maggior numero di elettori (ben 21.541), già a guida dem con Burrafato e oggi commissariato, l’affluenza alle urne è stata del 56,45%, con il “sì” fermatosi al 28,84% (3.884 preferenze) e il “no” che ha sbancato con il 71,16% (8.596).

Alla fine della conta ne esce ammaccato il partito del segretario-(ex)premier Renzi: le Madonie non sono state certo tenere, insomma. Avare di consensi, contribuiscono a una crisi interna che, probabilmente, seguirà strade tutte proprie rispetto all’iter governativo e parlamentare.

La Sicilia si è risvegliata come la terra del “no”, pur essendo guidata da una giunta a trazione prevalentemente Pd, a cominciare dal governatore fino ai suoi assessori. Assessori, peraltro, di peso che, direttamente o indirettamente, rappresentano da sempre i principali attrattori di voti d’area. Eppure stavolta, nonostante le ultime campagne d’acquisto (ex centristi, ex cuffariani, ex lombardiani, ex forzisti…), nonostante i grandi elettori mobilitati a favore del “sì”, principalmente in occasione delle trasferte di Renzi in Sicilia (presidiata dal fedelissimo, Davide Faraone), alla fine i numeri non hanno “parlato”. Insomma, non c’è stata corrispondenza tra il risultato delle urne e le intenzioni di voto. Qualcosa si è rotto, è evidente. O l’idillio tra questa classe dirigente siciliana e una larga fetta di popolazione si è davvero spezzato – e questo dovrebbe aprire, come un terremoto, nuovi fronti di indagine – oppure, rendite di posizione a parte che ancora mantengono in vita alcuni clientes, si è consumata, all’ombra del referendum, “la notte dei lunghi coltelli” all’interno dello stesso Pd. Insomma, un’imboscata nella più classica delle previsioni. Quasi da copione o da manuale. Opportunità, questa, servita su un piatto d’argento dallo stesso Renzi che, personalizzando il referendum, ha permesso di compattare il fronte del “no” e, magari, di agevolare gli imboscati del “sì” ufficiale.

L’errore, è ovvio, è stato di metodo: a) il premier aveva il Parlamento blindato (numeri alla mano) e avrebbe potuto terminare la legislatura senza impelagarsi in una riforma costituzionale a colpi di maggioranza; b) avere trasformato il referendum costituzionale in un referendum sul governo, appunto. Una sorta di elezione surrettizia che ancora non c’era stata e che pure necessitava a Renzi per zittire quanti sventolavano sotto il suo naso la mancata investitura popolare. Vero è anche che, all’opposto, avere personalizzato il referendum non è stato inteso come un errore, ma come un voluto atto strategico: personalizzarlo avrebbe convinto gli indecisi della riforma a turarsi il naso pur di salvare il governo in carica.
Ma alla fine è andata come è andata. Forse ci saranno scissioni o espulsioni o forse nulla di tutto questo. Ancora è presto per dirlo. Insomma, con tutte le distinzioni del caso, questo referendum è stato il “Vietnam” di Renzi e del Pd: di tutto il Pd, compresi coloro che hanno votato “no” o che hanno giocato a rimpiattino, cercando adesso di sfilarsi. 

Ultimo dato: le motivazioni dell’elettorato sono state davvero differenti, sia all’interno del blocco del “no” che di quello del “sì”, dove circa il 40% a favore non può certo ricondursi per intero al solo Renzi. Dentro, oggettivamente, ci stanno i voti del blocco centrista, di “transfughi” della destra e anche – secondo alcuni analisti – di qualche elettore pentastellato o leghista. Il bottino dem si attesterebbe più realisticamente attorno al 25-30%.
Dall’altro lato, infine, lo spacchettamento, com’è noto, assegna percentuali ancora più risicate, tante le forze politiche coalizzate, sebbene dentro vi siano anche fette di imprenditoria, ad esempio, lombarda che, Milano a parte, avrebbe voluto annoverarsi tra i “sì”, optando alla fine per una bocciatura, rimproverando all’ex premier di non aver corso abbastanza.

Adesso si attende Mattarella. Pure lui siciliano…

Antonino Cicero
@AntoninoCicero1