“Artigianelli”: un’identità che vuole resistere, nonostante i debiti

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A guardarla dall’esterno, la struttura al civico 90, in via Roma a Cefalù, rimanda con la mente all’architettura alveare, quella che, lineare all’esterno, nasconde dentro la laboriosità dell’iniziativa. È la sede dell’istituto “Artigianelli-Di Giorgio”, un’icona del tessuto sociale, economico e culturale della cittadina normanna e dell’intero comprensorio madonita; di più, di una fascia che giunge fin nel messinese.

L’“Artigianelli” è diventato, nei decenni, sinonimo di formazione e preparazione dei tanti tecnici, dipendenti o liberi professionisti che lavorano in questo territorio e, per la forzata emigrazione, non solo qui. Un punto fermo; un punto di riferimento. Innegabile, come innegabile è stato il massacro che si è consumato ai suoi danni. Non è una parola forte, ma evocativa di un pezzo di realtà. Già, perché licenziare un centinaio di persone e chiudere le porte dei corsi a circa 250 ragazzi impegnati nei percorsi formativi avviati, significa questo: massacrare un pezzo di società, di aspirazioni, di progetti. Almeno quelli.

L’istituto è della Congregazione dei Padri Giuseppini del Murialdo e dentro ci stava l’Engim (Ente nazionale Giuseppini del Murialdo) Sicilia, presente anche a Termini Imerese, Sant’Agata di Militello e Trapani. Questo fino al settembre 2015, quando si chiusero le porte dell’istruzione e della formazione professionale (IeFP) per i ragazzi in età dell’obbligo formativo. Da allora a oggi più nulla. O quasi.

Un secondo dato certo in questa storia è che i Giuseppini, al di là delle polemiche mediatiche, non si trasferiranno altrove. Il superiore provinciale, padre Lorenzo Sibona, in una nota di poche settimane fa, precisava che continueranno «la loro azione a Cefalù e agli Artigianelli e nella conduzione della parrocchia loro affidata. Per cause e colpe non attribuibili ai Giuseppini è temporaneamente sospesa l’attività di formazione professionale, che si spera di riprendere con rinnovato slancio, una volta superate –  non senza qualche sacrificio – le difficoltà attuali. L’istituto Artigianelli non è stato ceduto a nessuno, e i Padri continuano a gestire la parrocchia loro affidata».

Il problema, è evidente, è più profondo. Le levate di scudi, a vari livelli, sono state quasi sempre tardive. Il “core business” di quella struttura è stata sempre la formazione professionale. E, si badi, anche per esperienze dirette registrate in giro, non si è trattata della solita formazione professionale, quella sulla quale la “rivoluzione” crocettiana si è abbattuta, buttando via acqua sporca e bambino; no. Fermo restando che una “rivoluzione” del settore era stata invocata dagli stessi operatori e che sarebbe servita per razionalizzare un reparto allo sbando (perché tanta formazione professionale, senza che potesse seriamente definirsi tale, all’ombra della regione, dei suoi soldi e di quelli dell’Europa, è stata fatta), a Cefalù, è andato in scena un pezzo di formazione professionale seria, di quella che, appunto, “formava” realmente. Un modo più sofisticato di andare a bottega tra i banchi di scuola. Questa, in fondo, fu la semplice intuizione dei padri Giuseppini presenti nella cittadina tirrenica fin dagli anni Cinquanta.

Il terzo dato certo è rappresentato dalle vertenze interne dei lavoratori, dalle famiglie disorientate, dai ragazzi abbandonati a se stessi e a destini alternativi, probabilmente non altrettanto cercati, seguiti e voluti. Alla fine, quel “core business” che ha fatto, virtuosamente, dell’“Artigianelli” un punto di riferimento, un’icona in più province siciliane, ha lasciato solo buchi e silenzio. Anche quello. Entrare dentro l’edificio, oggi, vuol dire entrare in una “cattedrale” raggomitolata in se stessa, nel suo profondo, ascetico silenzio. Non ci sono più le voci dei ragazzi, i “suoni” dei laboratori, gli uffici in movimento. Non c’è più nulla. Non c’è più nessuno, oratorio a parte. L’unico rumore che si avverte è quello dei propri passi che ticchettano sul pavimento…

Buchi di bilancio, per intenderci, avvolti anch’essi in un irrispettoso silenzio. Ma i creditori bussano alla porta e occorre rispondere. Una soluzione immediata, nel vuoto delle casse, sembra sia la vendita di una striscia di terreno sulla via Pintorno, dirimpetto al mare, ad alcuni imprenditori interessati. Non rientrerebbero nel pacchetto di nuova costruzione edilizia né il campo di calcio (oggi non regolamentare e, quindi, non utilizzabile per competizioni ufficiali e, a volte, adibito impropriamente a parcheggio auto) né quello di basket, che manterrebbero la loro destinazione lì dove sono (dal campo di calcio, probabilmente, affiancati da aree verdi, uscirebbero fuori due campetti con annessi spogliatoi), funzionanti dunque per lo scopo per cui sono nati: la pratica sportiva per i ragazzi cefaludesi.

La Congregazione avrebbe potuto mettere in liquidazione l’Engim Sicilia, che ha chiuso i battenti sull’isola, ma non lo ha fatto. E però, il dato è sempre lo stesso: occorrono i soldi per pagare quanti vantano un loro diritto, tra cui i dipendenti senza stipendio – quando continuavano a lavorare – anche per 30 mesi o i fornitori. Senza corsi e senza pagamenti correlati, ben poco c’era e c’è da fare; alla fine, la fine è stato l’unico punto d’approdo. Allora gli scudi non si levarono con la stessa veemenza di oggi. Qualcuno sorride amaramente: «È come gridare “Al lupo! Al lupo!” quando i bambini sono stati già pappati!»

La vera questione, dicono dalle parti dei padri Giuseppini, adesso non è il campo, quanto chiedere con la medesima forza che i crediti vantati presso la Regione siano coperti. Insomma, all’“Artigianelli”, senza i pagamenti regionali, si è costretti a vendere. Non è una prerogativa dell’ente o una questione di speculazione, di mero affare; semplicemente non si intravedono altre soluzioni. L’ente, guardandosi allo specchio, può fare affidamento solo su ciò che ha. Come un buon padre di famiglia che, per onorare i propri debiti, vende i gioielli rimasti. A meno che altri, che davvero abbiano a cuore le sorti dell’istituto, non intervengano.

I padri Giuseppini rimarranno a Cefalù con la loro opera-struttura alveare, che, però, oggi è vuota, svuotata dei suoi suoni, rumori, balbettii, aspirazioni, speranze, progetti. Almeno fino ad oggi o fino a dicembre, forse, quando vi si dovrebbe trasferire il locale liceo linguistico “Ninni Cassarà” (si è accennato anche all’ipotesi di insediarvi l’istituto alberghiero, sebbene, per problemi di spazio, non sia semplice mettere tutti dentro), come precisato in una nota dallo stesso sindaco, Rosario Lapunzina. Un modo come un altro per tentare di andare in pareggio con i costi vivi, quelli ordinari, quelli della bolletta da pagare insomma, e un tentativo che permetta di rompere quel rigido silenzio. Ma i debiti, quelli veri, rimangono intatti.

I Giuseppini rimarranno, dunque, ma abdicando alla loro missione, loro malgrado. Il quarto dato certo e, al contempo, triste, infatti, è la rottura storica. “Fare il bene e farlo bene” diceva san Leonardo Murialdo mentre i piccoli artigiani venivano su all’ombra di questo motto. Formarli per un lavoro, manuale, d’artigiani e, oggi, d’artisti quasi, è stata da sempre la missione dei Giuseppini. A Cefalù, fin dal 1955. L’Engim tenterà, finché e se potrà – ecco il quinto e ultimo dato certo della vicenda – di fare ancora formazione professionale, alla loro maniera, anche in Sicilia, sistema regionale e risorse permettendo. Spera di vendere, di risanare i debiti e di ripartire. Le distorsioni di un intero sistema lasciano vittime sul campo e senza i contanti rimane solo un assordante silenzio, lo stesso dei propri passi che ticchettano sul pavimento…

Antonino Cicero
@AntoninoCicero1